ASTOLFO LUPIA

Biografia di Astolfo Lupia

Nasce nell’esotica Calabria, più di mezzo secolo fa. Vive un’infanzia e un’adolescenza esageratamente pensose, forse malinconiche. Partecipa, senza entusiasmo ai moti di piazza, che si producono al tempo con certa parsimonia. Nel mezzo di un’adolescenza che inopinatamente si protrae ben oltre i limiti biologici si trasferisce in Toscana, a Firenze, per cause del tutto accidentali. Lì non apprende, come capita invece ai più diligenti, la lingua del padre Dante. Successivamente si sposta nella vicina Perugia, città nella quale vive da qualche lustro. Alla ormai pluridecennale frequentazione dell’Italia italofona deve lo sviluppo di un talento sopraffino nella produzione di moccoli ovvero bastigne a preminente argomento mariano. Si è dedicato, con esiti infelici perché mediocri, alla scrittura, partecipando alla realizzazione di testi miscellanei la cui diffusione ridotta all’ambito municipale ha risparmiato all’affaticato lettore il fatale incontro coi suoi testi sconclusionati, privi di mordente. Si dedica da qualche anno alla fotografia, con fervore. Sugli esiti di tale fervido affaccendarsi è onesto qui tacere. Saprà il tenace e volenteroso lettore farsi un proprio giudizio. Detto per inciso, a mo’ di congedo, è forse utile sapere che vive (lui dice “lavora”) in una specie di casa per matti.

– M. Entrambosmares

 

CONTATTI

 

INTERVISTA ALL’ARTISTA – a cura di Elena Gollini

D: Come definisci il tuo stile espressivo di fotografia artistica?
R: Domanda ardua, problematica. Bisognerebbe mettersi d’accordo prima sul significato della parola Stile. Se, con una certa approssimazione, per stile intendiamo un certo orientamento latamente formale, un modo di comporre o di trattare la materia che è oggetto dell’atto fotografico, potrei forse, senza pretese di esaustività, definirmi un post- analogico. Intendo significare che pur scattando quasi esclusivamente in digitale, la rammemorazione dell’esperienza con la pellicola resta sempre per me un punto di riferimento ineludibile. Il ventaglio di possibilità rese accessibili dalle nuove tecniche, particolarmente in sede di post- produzione, non incontrano il mio entusiasmo. Non nego di essere rimasto abbacinato in un primo momento dalla novità, dalla inaudita e mirabolante estensione delle possibilità espressive che pareva garantire il digitale. Successivamente l’investimento libidico nei confronti del “nuovo” è andato scemando. Oggi limito l’intervento in post- produzione al minimo e valorizzo al massimo la fisicità del rapporto intimo con la camera; ne possiedo anche una leggerissima, che porto sempre con me. Ed amo sperimentare con l’attrezzo in mano. Qualche anno fa, di una serie di mossi in riva al mare, mi venne criticato il presunto eccesso di uso del pc. E questo perché quel particolare tipo di impasto del colore che in quel mosso avevo cercato e trovato, pareva a molti il risultato creato a tavolino davanti allo schermo. E’ ovvio che la ricerca è stata facilitata dall’uso di una macchina digitale; dalla possibilità di potere controllare l’esito dello scatto in tempo reale e modulare gli interventi successivi in maniera più precisa. Ho inserito alcuni di quei mossi: ne sono particolarmente contento.

D: Come stai orientando la tua ricerca creativa e quali progetti hai messo in campo in questo anno?
R: Il mio rapporto con la fotografia è complesso. Nelle immagini che propongo qui ho privilegiato l’aspetto “impressionistico”. Uso il termine in senso figurato, s’intende. Nel corso delle mie lunghe e solitarie escursioni in luoghi differenti (con una certa predilezione per gli spazi non particolarmente affollati) mi lascio guidare dalle impressioni che in me provocano le cose, l’ambiente circostante, senza curarmi eccessivamente dell’organicità dell’esito finale. Talvolta, dopo qualche tempo, mi pare di rinvenire un certo nesso, non estrinseco, tra alcune immagini. Ne ricavo quindi delle sillogi, che forse non sono del tutto incoerenti e disorganiche. Tuttavia, nel corso degli ultimi tempi, ho realizzato una serie lunga di immagini che ritraggono persone che vivono nelle strutture della salute mentale. E’ un lavoro che trova ispirazione in un modello chiaramente inarrivabile, quello rappresentato dal Maestro Berengo Gardin. Interamente in scala di grigi, in esso l’aspetto impressionistico viene meno, scompare. Mi pare di avere espresso in esso molto di quel si agita nelle profondità del mio essere. C’est moi, potrei dire con Flaubert. Sfortunatamente non posso presentarlo in questa sede: lo impedisce la paranoica e occhialuta normativa sulla privacy. Non dispero di poterlo fare, un giorno, magari non troppo lontano.

D: Un tuo commento di valutazione sull’attuale comparto dell’arte fotografica in ambito nazionale e internazionale;
R: A me la situazione odierna della fotografia pare un magnifico e indescrivibile caos. Ognuno fa quel che gli pare; ognuno presenta e offre se stesso e il proprio lavoro con generosità. Generosità, invero, di norma indirettamente proporzionale alla qualità. Ma tant’è. E’ cosa buona, ragguardevole che un numero sempre più alto di persone si applichi in attività (molto) latamente estetiche. Qualche purista o qualche accademico storcerà il naso; ce ne faremo una ragione. E’ chiaro che in tanta alluvionale profusione di selfies o di foto di cibi, di fondoschiena tiratissimi e di seni di indicibile generosità, di panorami ipersaturi, di cieli da apocalisse, di tramonti falsamente impeccabili sarà sempre più difficile rintracciare la qualità. Ma tale preoccupazione non ci inquieta più di tanto: la lasciamo volentieri ai critici. Che anche nel mare magnum delle foto a raffica sapranno esercitare il loro già affilatissimo acume.

 

PHOTOGALLERY

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